Finanziaria DEF 2019: Nuovo Potere, Vecchie Menzogne. La nostra analisi Economica

Nov 11, 2018 No Comments by

Il contesto attuale e le contraddizioni del capitalismo

Osservando l’evoluzione del contesto macroeconomico mondiale possiamo notare come, a partire più o meno dagli anni 80, la quota dei redditi d’impresa destinata ai salari dei lavoratori scenda drasticamente, i salari crescano meno della produttività media del lavoro, e le disuguaglianze aumentino, evidenziando così la prima grande contraddizione del capitalismo, la cui teoria dice che il lavoratore dovrebbe essere pagato in modo tale da potersi permettere almeno ciò che produce. Una possibile interpretazione di questa tendenza è che questa coincida con il declino dell’URSS, quando il capitalismo, non sentendosi più tanto minacciato dall’esistenza di un sistema alternativo, ha potuto agire liberamente.

Questo segna l’introduzione del modello del consumatore/debitore in cui il lavoratore, essendo anche un consumatore, non solo è un potenziale cliente del proprio datore di lavoro, ma si deve anche indebitare per permettersi di acquistare ciò che egli stesso produce. Questo fa aumentare le disuguaglianze, che a loro volta fanno aumentare il debito privato, e a valle di questo il debito pubblico per i salvataggi di banche private che prestano senza remore non appena ne hanno l’opportunità, anche quando non dovrebbero. In Italia, dove c’è sempre stata una tradizione di risparmio privato e dunque il debito pubblico era già elevato in quanto principale strumento di stimolo della domanda aggregata, questo arriva più tardi, con introduzione dell’euro, la cessione di sovranità monetaria all’Unione Europea, insieme alla deregolamentazione finanziaria e all’incontrollata circolazione di capitali (per cui gran parte del debito, sia pubblico che privato è con l’estero) e con l’ondata di privatizzazioni ed i suddetti salvataggi pubblici delle banche.

Questo contesto si può tradurre in un progressivo affidamento al mercato e una marginalizzare del ruolo dello stato ed il mercato, soprattutto quello finanziario, come visto più volte nel corso della storia, fallisce. Fallisce non solo in ottica Socialista, in quanto favorisce l’accumulazione di ricchezza e ne impedisce un’equa distribuzione, ma anche semplicemente in ottica keynesiana, perché gli operatori finanziari guardano solo al breve termine e sono completamente scollegati dagli obiettivi di lungo termine propri dell’economia reale, grande contraddizione del capitalismo finanziario.

Vediamo dunque come disuguaglianze e debito si alimentino in un circolo vizioso di decrescita. E notiamo come in questo tipo di processo di globalizzazione, in Italia, chi ci abbia perso finora, oltre ovviamente ai lavoratori, è anche parte della piccola e media borghesia locale, parte della cui ricchezza è stata trasferita alla grande borghesia globale.

Finanziare la manovra: dalla parte del debito

In questo contesto appena descritto, diciamo subito che il problema della manovra non è operare in deficit (che tra l’altro è più basso di quasi tutti gli anni del decennio passato). In realtà trovare risorse per attuare politiche espansive è necessario in questo momento in cui l’austerità ha fallito in tutto e per tutto, adducendo argomentazioni teoriche ridicole (come quella il consumatore spenderebbe comunque perché sa che pagando più tasse oggi ne pagherà meno domani) e soprattutto ha fatto aumentare il rapporto debito/PIL, anziché ridurlo. E il fatto che molte critiche dal centrosinistra si concentrino sull’eccessivo deficit, piuttosto che su come le risorse verranno impiegate, la dice molto lunga.

Il problema del debito pubblico, oggi, è che questo, in conseguenza del processo descritto nel primo paragrafo, è in gran parte nelle mani dei mercati, ed essendo contrattato come un unico stock rispetto a quello privato delle famiglie o delle imprese, fa molta più paura all’opinione pubblica. Il differenziale di rendimento rispetto ai titoli tedeschi (spread) essendo determinato da contrattazioni di mercato, risponde anch’esso ad un’ottica di breve termine (come dicevamo riguardo ai mercati finanziari) e non a considerazioni economiche sull’effettiva sostenibilità del debito nel lungo periodo. Inoltre, esso è anche fortemente influenzato dal giudizio sulla solvibilità dello Stato delle agenzie di rating private, soggette a un forte lobbismo da parte di grandi compagnie private (che infatti vengono trattate con un metro di giudizio molto meno stringente di quello degli Stati) e assolutamente non trasparenti nelle loro valutazioni.

Purtroppo lo spread, che in un primo momento è solo una variabile teorica in quanto riflette il valore di mercato dei titoli già in circolazione, può diventare un problema reale nel momento in cui future emissioni di debito dovranno rendere un interesse maggiore per soddisfare i mercati. Inoltre, un minor valore dei titoli di stato va a deteriorare la situazione patrimoniale delle banche che ne detengono in bilancio, e le banche italiane hanno già bilanci abbastanza dissestati, dopo aver prestato dissennatamente in passato (come accennato in precedenza).

Dunque è necessario trovare risorse da investire, poiché la sostenibilità del debito stesso dipende proprio da questo, ma allo stesso tempo queste risorse devono essere investite  per rilanciare effettivamente la crescita. Condizione necessaria per riportare crescita è senza dubbio una riduzione delle disuguaglianze, che non sembra però essere uno degli obiettivi della manovra, come vedremo in seguito.

E’ inoltre utile menzionare che a quanto sembra, oltre all’indebitamento, parte delle risorse da investire in manovra saranno reperite tramite la revisione di alcuni sconti e sgravi fiscali (anche se non si dispone ancora di tutti i dettagli), di cui ovviamente risentiranno coloro che ne hanno più bisogno, cioè le classi meno agiate.

Il programma di governo: dalla parte degli investimenti

Premesso che per ora è impossibile quantificare credibilmente gli effetti macroeconomici della manovra, vediamo in che modo il governo intende investire queste risorse:

  • Il reddito cittadinanza: nonostante in termini quantitativi questa sia la più grande misura anti-povertà mai fatta in Italia, più che di inclusione sociale questa rischia di essere una misura di esclusione, per via delle modalità di somministrazione: non può essere risparmiato; può essere speso solo per l’acquisto di determinati beni; chi lo percepisce deve accettare una delle prime tre offerte di lavoro definite genericamente “eque”. Certo, è senz’altro meglio di niente, ma a livello macroeconomico, anche se farà aumentare i consumi, non porterà lavoro nel lungo termine. E considerazioni simili possono essere fatte per il decreto dignità: se non si assume è perché vi è in atto una crisi di domanda, le condizioni contrattuali non influiscono. Ed infatti, non sono mai state le protezioni del lavoratore a frenare le assunzioni in primo luogo. Piuttosto, i fondi investiti in questa misura dovrebbero andare a potenziare il settore pubblico che potrebbe aumentare le assunzioni in un’ottica strategica;
  • Quota 100 per le pensioni: anche questo potrebbe sembrare meglio di niente, ma anche qui si nascondono delle grandi contraddizioni: innanzitutto il fatto che appena un lavoratore vada in pensione venga sostituito da un giovane (che nel testo della manovra sembra essere la principale motivazione di tale provvedimento), per quanto sarà sicuramente vero in alcuni casi, non ha alcun riscontro teorico o empirico a livello aggregato, perché, anche in questo caso, la domanda di lavoro semplicemente non c’è. E da questo segue un altro grande problema: che i giovani, nelle condizioni attuali del mercato lavoro, non verseranno abbastanza contributi per le loro pensioni. Inoltre, questa misura rischia di aumentare ulteriormente le disuguaglianze, perché chi ne beneficerà saranno soprattutto gli uomini (che hanno in media carriere più stabili delle donne) del Nord (dove si hanno in media carriere più stabili che al sud). In ambito pensionistico ciò che servirebbe veramente sarebbe un abbandono del sistema contributivo e un ritorno al retributivo, che costa, sì, molto di più per lo stato ma la cui insostenibilità si è iniziata a manifestare in conseguenza di due fattori: l’invecchiamento della popolazione e la crisi della domanda interna. E dunque è lì, a monte, che si dovrebbe agire;
  • La “Flat Tax”: con questa, si estende il tetto del 15% ai 65.000 Euro annui per i lavoratori autonomi, distruggendo così il principio della progressività delle imposte. Questa misura, oltre ad aumentare di per sé le disuguaglianze (e quindi il debito privato e poi pubblico) è finanziata, tra le altre cose, dal condono;
  • Il condono: una specialità di Casa Lega, non nuova a provvedimenti di questo tipo con i precedenti dell’era Berlusconi. Innanzitutto, con il condono ci si accontenta di recuperare soltanto una piccola parte del dovuto incentivando così l’evasione futura. Inoltre, questo sarebbe anche comprensibile se riguardasse veramente solo il piccolo imprenditore che dichiara tutto e poi non ce la fa a pagare perché preferisce pagare i dipendenti (come nella peggior retorica leghista). Il problema è che alla fine saranno soprattutto i grandi evasori che ne beneficiano. E tutto questo nel nome del fatto che i consumi e gli investimenti privati tanto entrano comunque nel computo del PIL. Ma bisogna chiedersi: i ricchi che evadono, quanto possono veramente consumare? E quando non consumano, che tipo di investimenti fanno? Il problema è che anche se il PIL a livello aggregato è uguale in un determinato anno, l’investimento pubblico ha una valenza strategica di medio/lungo termine immensamente superiore rispetto al consumo o investimento privato, proprio perché solo quello pubblico può agire in funzione redistributiva e quindi di riduzione del debito nel lungo termine;
  • Facciamo anche una considerazione non strettamente economica: il tema della sicurezza (ad esempio la riqualificazione periferie), tanto caro alla Lega, se fatto in modo serio, dovrebbe andare in senso inclusivo e anti-alienante, non in senso di militarizzazione dei quartieri, che crea solo disaffezione verso lo Stato;
  • Vi è poi un ulteriore disimpegno dello stato dall’economia, con la conferma della riforma delle partecipate avviata dai precedenti governi;
  • La promozione delle piccole imprese tramite fondo appositamente costituito: diciamo subito che la dimensione delle imprese italiane non è un problema. Il problema è che questa promozione non sembra guardare ad alcun particolare settore strategico. Non si può permettere che i giovani si indebitino per aprire l’ennesimo bar o pizzeria che poi va solamente ad alimentare il circolo delle insolvenze (diciamo bar o pizzeria, ma potremmo tranquillamente utilizzare come esempio il famoso “piccolo artigiano” della retorica leghista). Solo quelle idee innovative o che rispondano ad obiettivi strategici per il Paese andrebbero promosse. Non è possibile né desiderabile che l’intera popolazione ambisca ad essere titolare di un’attività propria. E questo dovrebbe essere insegnato a scuola, che dovrebbe contrastare questa retorica, tipica del Leghismo, che tanto studiare non serve perché iniziando a lavorare a 16 anni possiamo tutti essere imprenditori;
  • Ed infatti viene conferma l’alternanza scuola-lavoro, che svilisce del tutto il valore teorico tipico dell’educazione italiana.

In questi punti principali della manovra, si evidenziano tutte le contraddizioni della destra sociale e populista di cui dobbiamo assolutamente smontare il mito: una destra “sociale” non esiste. La destra è liberista, e quindi a favore del capitale e contro gli interessi del lavoratore. In particolare, in quelle misure ideate dalla Lega, è possibile identificare il tentativo di restituire alle piccole élite locali il potere perso nei confronti di quelle globali (come menzionato nel primo paragrafo). In pratica, si mira ad un ritorno agli anni 70-80, quando il lavoro era nelle mani dell’imprenditoria locale anziché multinazionale, senza però reintrodurre le tutele che c’erano in passato e che nel frattempo sono state smantellate (in parte dalla Lega stessa, durante l’era Berlusconiana, e in parte persino dal recente governo del PD!). In quelle misure di parte M5S, invece, possiamo identificare semplicemente quella vena sensazionalista ed incompetente che alla fine, la storia ci insegna, si schiera facilmente dalla parte del fascismo (vedi nel caso del Partito dell’Uomo Qualunque).

Spunti per operare nel contesto attuale

Volendo restare nel contesto dell’attuale modello economico, misure che vorremmo vedere dovrebbero mirare innanzitutto a ridurre le disuguaglianze (e di conseguenza il debito) all’interno del Paese. Esempi di misure che servirebbero nel breve periodo sarebbero un’imposta patrimoniale, un aumento delle assunzioni nel settore pubblico, imposte fortemente progressive (ed uno Stato in grado di esigerle dai grandi evasori): in generale, servirebbe un potenziamento del ruolo dello Stato per agire in senso redistributivo.

È necessario gestire l’immigrazione in modo efficiente, cosa che può essere fatta solo se i capitalisti dei paesi d’arrivo siano costretti a garantire delle condizioni di lavoro minime. Solo così si può rilanciare la domanda interna e liberarci così di questa assurdità che bisogna attrarre investimenti stranieri a tutti i costi (cosa che invece causa soltanto un aumento del debito estero e che può essere realizzata all’interno dell’unione monetaria soltanto a scapito delle tutele del lavoratore).

Nel medio-lungo periodo, una volta ripristinato un adeguato livello di crescita ed inflazione, andrebbe reintrodotta la scala mobile sui salari dei lavoratori e si potrebbe poi pensare di re-instaurare il sistema retributivo per le pensioni, nonostante questo, verosimilmente, richiederebbe livelli di deficit che difficilmente sarebbero tollerati dalle istituzioni europee. Allo stesso modo, il ritorno ad un regime di repressione finanziaria, necessario per limitare i movimenti del capitale e far sì che la finanza si limiti al suo ruolo di finanziatore dell’economia reale, striderebbe con uno dei principi su cui è fondata de facto l’Unione Europea stessa, quello della sopraffazione del capitale sul lavoratore. Questi ultimi due punti realisticamente comporterebbero la necessità di un’uscita dell’Italia quanto meno dall’unione monetaria, tema spinoso che meriterebbe una discussione tutta per sé e che dunque non affronteremo in questa sede.

Spunti in ottica socialista

Volendo invece guardare oltre, verso un mondo più Socialista, il documento di Patria Socialista introduce il concetto filosofico di controllo qualitativo della domanda piuttosto che quantitativo dell’offerta. Questo consiste nell’educazione del cittadino, che è anche consumatore, a richiedere alcuni beni o servizi piuttosto che altri. Consiste nel pianificare il tipo di beni da produrre o da non produrre, piuttosto che la loro quantità. Consiste nella valutazione, da parte dello stato, di quale tipo di attività sia più opportuno incentivare (come detto in precedenza parlando della promozione delle piccole imprese).

Tutto questo può essere attuato solo partendo da obiettivi a lungo termine dell’istruzione pubblica fissati dallo Stato; e dalla proposta di un modello culturale alternativo credibile: dobbiamo fare in modo che il lavoro sia disalienante, è fondamentale che lo stato crei la voglia di eccellere tramite partecipazione alla vita lavorativa e alle decisioni dell’impresa e tramite la prospettiva di una parte di salario variabile associata agli obiettivi d’impresa di lungo termine. L’economia deve sconfiggere l’ottica di breve termine propria del capitalismo moderno. Ed oltre ad essere disalienante, il lavoro deve permettere di vivere una vita extra lavorativa che sia disalienante essa stessa: in sintesi, non vogliamo che l’economia sia un modo per sviluppare altre attività umane, ma che siano le altre attività umane ad ispirare la produzione economica.

Vogliamo che lo Stato, proprietario dei mezzi di produzione, stabilisca paletti su ripartizione redditi d’impresa, ma che ogni cittadino sia libero di proporre idee e di gestirne la realizzazione previa approvazione dello stato, basata su obiettivi strategici di diversificazione e flessibilità. Ed il mercato dei beni, a valle dell’indirizzo della domanda aggregata e dell’educazione del consumatore, va sfruttato come strumento di micro-pianificazione per le piccole imprese e per il coordinamento delle entità amministrative.

Ma quello che è più importante capire se si parla di un modello economico alternativo al capitalismo attuale, è che non esiste, e non può esistere, una formula finale ed immutabile di Socialismo. Dobbiamo imparare dalle esperienze passate, il Socialismo non ha avuto il tempo a disposizione che ha avuto il capitalismo per adattarsi: il capitalismo ha potuto auto correggersi nel corso di oltre due secoli ed il concetto di auto correzione è fondamentale per un modello economico. Il Socialismo è sempre stato ostracizzato, perché è giustamente temuto dai detentori di ricchezza e potere, ed è anche e soprattutto per questo continuo assedio e ostilità che alcune esperienze passate non hanno funzionato come dovuto, ma vi sono anche altrettanti casi in cui è andata meglio e a cui abbiamo il dovere di ispirarci.

E mentre quelle esposte in questa sede e nel documento di Patria Socialista sono idee, principii, linee guida, il dibattito sul futuro del Socialismo è più vivo che mai, ed è dovere di tutti quanti noi guardare alle esperienze passate e costruire questo futuro insieme!

Patria Socialista

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